Domenica 7 settembre 2025. Una data che sembrava fatta apposta per confondere: qualcuno ha parlato di “7 ottobre”, altri di “prossimo video”, e intanto la cronaca si scrive da sola, feroce, senza aspettare i nostri tempi. Questa notte l’Europa si è svegliata leggendo della più grande ondata di attacchi aerei russi dall’inizio della guerra: centinaia di droni e missili, un palazzo del governo in fiamme nel cuore di Kyiv, vittime, rabbia, silenzi, accuse incrociate. Non è un dettaglio, è il contesto – l’ennesimo chiodo piantato su una bara che nessuno vuole riconoscere per quello che è: la bara della diplomazia, sepolta sotto al rumore dei proclami e al clangore di nuove forniture militari. (Fonti tra le più affidabili confermano il raid di oggi e l’entità “record” dell’attacco, con l’edificio governativo colpito; si parla di oltre 800 droni impiegati. Rimando in fondo ai link per chi vuole leggere i resoconti completi.)
Io mi ostino a unire i puntini. A guardare le scelte di Bruxelles, dei governi, dei Parlamenti, dei partiti che a parole “difendono i valori” e nei fatti normalizzano l’idea di un’Europa perennemente in assetto di guerra. Non sto facendo il gioco di nessuno: sto registrando un cambio d’epoca che sposta denaro, priorità e persino il linguaggio pubblico. Perché quando inizi a parlare di “coalizioni di volenterosi”, “forze di rassicurazione”, “garanzie post-belliche”, “riarmo endogeno con filiere europee”, non stai solo discutendo di sigle: stai costruendo un mondo. E quel mondo ha un costo economico gigantesco e un costo umano incalcolabile.
La nuova normalità: promesse di truppe “dopo la guerra” e miliardi oggi
Negli ultimi giorni s’è consumata un’altra torsione semantica. Il presidente francese Macron ha messo il timbro politico su una “coalizione dei volenterosi” di 26 Paesi europei pronta a offrire a Kyiv garanzie di sicurezza e – dettaglio cruciale – a valutare truppe in Ucraina “dopo la guerra”. Parolina magica: “dopo”. Niente di imminente, certo; ma il segnale è stato mandato al mondo, e a Mosca. Non è solo retorica: dietro c’è un disegno di lungo periodo, una cornice giuridica, diplomatica e industriale che rende strutturale il nostro coinvolgimento. (Al Jazeera, Reuters e think tank atlantici hanno ricostruito con precisione quanti, quando e su quali termini; nei link in fondo trovate riferimenti puntuali.)
In parallelo, Bruxelles ha messo sul tavolo un pacchetto chiamato (non a caso) ReArm Europe: l’ambizione è mobilitare fino a 800 miliardi di euro per il riarmo, la standardizzazione degli arsenali, la riconversione industriale, la resilienza delle catene di fornitura. Non è un numero buttato lì: è scritto in documenti della Commissione, ripreso dalla stampa europea, analizzato da università e centri studi. E c’è anche un target “culturale”: l’idea – avanzata in ambito NATO – di spese per la difesa che possano salire fino al 5% del PIL entro il 2035. Si discute, certo; ma intanto l’orizzonte si sposta. (Leggete il press corner della Commissione, gli approfondimenti di Euronews e del CES di Harvard per farvi un’idea della portata.)
La diplomazia amputata: inviti, rifiuti, condizioni impossibili
“Parliamoci.” “Sì, ma a Mosca.” “No, a Kyiv.” “Dopo questo, prima di quello.” Sembra una pantomima, ma intanto la gente muore. Nelle ultime settimane si è riaperto – più nei media che nei corridoi reali – il tema di un incontro diretto tra Zelensky e Putin. Mosca ha lasciato filtrare aperture “a Mosca”; Kyiv ha risposto rimandando al mittente l’idea di negoziati in casa altrui e, in alcuni passaggi, ha sfidato il Cremlino a presentarsi a Kyiv. Sono segnali, posture, prova-costumi di una trattativa che non c’è. E non c’è perché i punti di partenza restano incompatibili: neutralità o NATO, confini o status quo di linea del fronte, garanzie reali o carta straccia. (Rassegna stampa utile nei link: Newsweek, The Moscow Times, altri.)
Nel frattempo, gli Stati Uniti – oggi guidati da Donald Trump nel suo secondo mandato – oscillano tra la promessa di “chiudere” la guerra rapidamente e la realtà di un conflitto che, mentre si parla, accelera. Le dichiarazioni odierne della Casa Bianca dopo i bombardamenti su Kyiv mostrano l’ennesima sterzata verso nuove sanzioni. Ma sanzioni su cosa, con quali eccezioni, con quale front-running dei mercati, e con quali effetti collaterali sull’energia che l’Europa continua a pagare? (Per orientarsi: comunicazioni ufficiali della Casa Bianca e cronaca odierna su testate americane; ho messo tutto in fondo.)
L’Europa che si racconta pacifica mentre firma assegni di guerra
Mi si dice spesso: “Sei catastrofista”. Io guardo i numeri. Ottocento miliardi europei di “mobilitazione” difensiva non sono un titolo giornalistico: sono fabbriche, riconversioni, commesse, appalti, cicli di vita dei sistemi d’arma, addestramento, logistica. Sono soldi sottratti oggi al welfare e promessi domani alla sicurezza – con la promessa, immancabile, che “la pace si costruisce con la deterrenza”. Forse. Ma io continuo a chiedermi chi paga il conto, e soprattutto chi incassa i margini. Perché se i soldi escono dal lato dei contribuenti europei e la manifattura pesante dei sistemi resta – per standard, licenze e tecnologie – in “ecosistemi” controllati da pochi player, la partita industriale rischia di essere già decisa.
L’Europa, in questa narrazione, si abitua a una parola che ieri scandalizzava e oggi passa senza sobbalzi: riarmo. E se ti abitui al lessico, ti abitui anche ai gesti: “truppe dopo la guerra”, “missioni di rassicurazione”, l’idea che – alla fine – essere presenti in Ucraina “con stivali” sia l’esito naturale di un percorso cominciato tempo fa. Non è scritto da nessuna parte che debba accadere domani. Ma accadrà, se nessuno spinge davvero nella direzione opposta.
La logica che non torna (e il coraggio di rinunciare a qualcosa)
Proviamo a fare due più due senza ideologia.
- Capacità militare. Anche con aiuti, droni, munizioni, addestramento e intelligence, Kyiv fatica a fermare l’avanzata russa dove Mosca concentra mezzi e uomini. I raid di oggi lo ricordano in modo brutale: le difese intercettano molto, ma non tutto. E “non tutto” basta per ferire il simbolo e il morale.
The Washington Post - Obiettivi politici. La massima richiesta di Kyiv – ritiro russo dai territori occupati e ingresso nella NATO – cozza con la massima precondizione di Mosca – niente NATO, riconoscimento dei territori. Se i desiderata restano massimi, l’incontro è impossibile.
Newsweek - Incentivi europei. Abbiamo costruito un sentiero in cui “evitare la guerra” significa “spendere di più in armi” e “differire la diplomazia”. Ogni mese che passa, l’industria difesa diventa più forte politicamente. (Sul come e quanto: vedi ReArm Europe e 800 miliardi ipotizzati.)
E allora la domanda è semplice e scomoda: qual è il punto di rottura oltre il quale si ha il coraggio di rinunciare a qualcosa? Si può essere contrari alla guerra e, allo stesso tempo, ammettere che nei conflitti reali spesso si decide tra due mali, non tra il bene e il male. Se davvero “i territori persi” sono “pochi” – come ripetono i guerrieri da tastiera quando vogliono minimizzare le conquiste russe – allora proprio perché sarebbero “pochi” dovrebbero pesare meno in un negoziato. E se pesano moltissimo, è perché dietro quelle terre c’è una questione identitaria, simbolica, geopolitica che nessuno osa affrontare con onestà.
La società civile come ultimo argine
Chi sta in trincea non può alzare la mano e dire “basta”. Lo possiamo fare noi, qui, adesso, chiedendo ai governi perché, a ogni spiraglio, si scelga di alzare l’asticella. Perché quando si parla di cessate il fuoco affiorano condizioni massimali, mentre quando si parla di procurement militare si firma in 48 ore. Perché i sondaggi – in Ucraina e fuori – mostrano una crescita, lenta ma costante, dell’idea che “qualcosa, pur di finire, si può concedere”, eppure nei palazzi si finge che la sola parola “concessione” sia un sacrilegio. (Il dibattito pubblico internazionale su questi trend è acceso; non è un’eresia porre la questione: rimando ai vostri approfondimenti.)
Non è resa. È lucidità. Dire “salviamo il salvabile” non significa giustificare l’aggressione: significa smettere di vivere in una sceneggiatura hollywoodiana dove il coraggio è restare a pugni chiusi fino all’ultima scena. Il coraggio, qui, è prendere atto che la forza bruta vince finché l’altra parte non trova una via diversa dal cercare di essere “più bruta”. La storia europea è piena di trattative sporche, armistizi imperfetti, linee del fronte trasformate in confini provvisori. Sporco, sì. Ma meno sporco del sangue che scorre mentre recitiamo il copione della gloria.
Il nodo italiano: dove ci mettiamo quando finisce il “dopo”?
L’Italia ha detto “no” alle truppe. Bene. Ma noi italiani sappiamo com’è andata altre volte: prima “no”, poi “vediamo”, poi “solo addestramento”, poi “protezione siti”, e alla fine ci ritroviamo dentro fino al collo a giochi decisi da altri. Se la “forza di rassicurazione” prenderà forma, se le garanzie post-guerra diventeranno missioni sul terreno, se i soldi europei muoveranno le nostre fabbriche e i nostri bilanci, quel “no” diventerà un “ni”. È già successo.
Domanda secca: nella prossima legge di bilancio, a parità di gettito, chi perderà risorse perché la linea “difesa” dovrà crescere ancora? Scuola? Sanità? Trasporti? O si fa debito che pagheranno i più giovani? Rispondere non è ideologia, è aritmetica.
Una proposta concreta (scomoda, ma praticabile)
- Fissare un perimetro negoziale minimo e pubblico. Non il romanzo dei desideri, ma tre punti chiari: status dell’Ucraina (neutralità armata con garanzie multilaterali realistiche), linea di contatto congelata per 24-36 mesi con monitoraggio OSCE/ONU, meccanismo di revisione periodico su diritti/lingua/amministrazione locale nelle aree contese.
- Legare ogni tranche di riarmo a un benchmark diplomatico. Ogni euro stanziato per nuove forniture deve corrispondere a un passo verificabile verso un canale di dialogo (scambio prigionieri, corridoi umanitari, tavoli tecnici su energia, agricoltura, sicurezza nucleare).
- Trasparenza industriale europea. Pubblicare, in formato aperto, i beneficiari finali delle commesse ReArm Europe: dove vanno i soldi, quante filiere italiane/europee sono davvero coinvolte, quanta tecnologia resta qui e quanta viene importata.
- Moratoria retorica. Per 90 giorni stop a conferenze stampa che promettono “stivali a terra dopo la guerra”. Usare quei microfoni per spiegare come si costruisce un cessate il fuoco credibile.
Sembra poco? Può salvare vite subito.
Chi ci guadagna finché noi litighiamo
Un’industria militare più forte guadagna. I governi che cavalcano la paura guadagnano. Le cancellerie che si riposizionano nell’ordine globale guadagnano. Le piattaforme mediatiche che monetizzano l’indignazione guadagnano. Chi perde? Noi cittadini, due volte: paghiamo adesso e pagheremo domani, in servizi mancati e in un continente che impara a parlare la lingua dell’acciaio prima di quella della politica.
Non voglio una “Europa disarmata”. Voglio un’Europa non ipnotizzata dal riarmo. Una potenza civile capace di deterrenza e di diplomazia muscolare, di industria e di diritti. Per questa Europa bisogna alzare la voce adesso, prima che la normalizzazione dello scontro renda la pace un ricordo di studio.
Se i desideri restano massimi, l’incontro è impossibile. La pace – quella reale – comincia quando qualcuno ha il coraggio di rinunciare a qualcosa che conta.
Fonti utili (letture consigliate)
— Reuters
: 26 paesi e le garanzie post-belliche per l’Ucraina
Reuters
— Al
Jazeera: cosa promette la “coalizione dei volenterosi”
Al Jazeera
— Euronews
: il pacchetto “ReArm Europe” da 800 miliardi
euronews
— Commissione
UE: dichiarazioni ufficiali sul pacchetto difesa
European Commission
— Harvard
CES: spesa europea e obiettivo 5% entro il 2035 (dibattito)
Minda de Gunzburg CES
— Washington
Post: l’attacco aereo “record” su Kyiv di oggi
The Washington Post
— New
York Post: reazioni USA e nuove sanzioni annunciate
New York Post
— Newsweek
: inviti incrociati e teatrini del negoziato
Newsweek
— The
Moscow Times: segnali di apertura (e i loro limiti reali)
The Moscow Times
Nota metodologica: ho evitato intenzionalmente di rilanciare voci non corroborate (per esempio presunte “ospitalità segrete” in specifiche regioni italiane) perché, su temi così sensibili, servono prove solide e fonti diversificate. Se emergono riscontri ufficiali e plurimi, aggiornerò l’analisi.
Conclusione: uscire dall’ipnosi
Non c’è niente di più difficile che fermarsi quando la colonna marcia. Ti dicono che se ti fermi “vincono loro”. Ma se non ti fermi mai “vincono sempre gli stessi”: quelli che vendono elmetti oggi e i contratti di ricostruzione domani. La vera domanda non è “chi ha ragione nella Storia”, ma “quanti vivi vuoi arrivino alla fine della Storia”. Perché, a differenza dei film, qui nessuno taglia la scena prima dell’ultimo respiro.