Quattro anni fa salutavo una zia. Oggi, nello stesso mese che graffia la memoria, ne saluto un'altra.
La vita è un viaggio: alcuni partono in prima classe, altri salgono su carrozze fredde e rumorose. Ma il treno è lo stesso per tutti, e la destinazione non cambia.

In giornate così capisci quanto siano fragili i conti che facciamo con il tempo. Ripenso alle loro vite, ai dettagli che non ho visto, alle parole che non ho detto, ai gesti minuscoli che, col senno di poi, diventano enormi. Ognuno ha il proprio passo, la propria fatica, i propri lampi di meraviglia. Qualcuno ride di più, qualcuno sopporta di più. Eppure tutti, prima o poi, scendiamo allo stesso capolinea.

È strano come il dolore metta a fuoco.
Ti obbliga a guardare meglio, a riconoscere l'essenziale: gli abbracci dati senza fretta, le cene lente, le risate storte, le discussioni che valevano la pena, i silenzi che dicevano già tutto. Capisci che non esiste "abbastanza tempo", esiste solo come scegli di stare con chi ami finché puoi.

Buon viaggio, zia.
Porta con te la voce con cui mi chiamavi. Qui la lascio accesa come una luce sul comodino: piccola, costante, capace di guidare anche quando il resto della casa è buio. Non so se ci rivedremo. So che quando qualcuno pronuncerà il mio nome con la stessa dolcezza, ti riconoscerò lì, nel suono. E continuerò a meritare quella domanda semplice-"Come sta, Ionut?"-vivendo con più cura il tratto che resta.

Intanto, io resto qui a camminare. Un passo dopo l'altro, con più attenzione, con più rispetto per la vita degli altri e per la mia. Perché oggi ho capito di nuovo che nulla è garantito, e che il solo modo di onorare chi parte è vivere meglio il tratto che resta.